Due contributi per fare memoria di Santa Caterina da Siena, il primo di Antonio Sicari, il secondo di Papa Benedetto XVI
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Era l’autunno del medioevo. Proprio in quell’anno 1300, per la prima volta nella storia, il papa Bonifacio VIII aveva proclamato il Giubileo e si erano riversati a Roma più di duecentomila pellegrini da tutta Europa. Ed ecco, non erano ancora passati tre anni che la cristianità udiva parlare, sgomenta, dell’oltraggio di Anagni: il pontefice era stato deriso, schiaffeggiato dai soldati del re di Francia. Lo stesso Dante – che pure accusava (a torto) il papa d’aver «fatto strazio» della Chiesa, vendendola per denaro – lo descrisse con la riverenza e l’affetto dovuti a Cristo: «Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso / e nel vicario suo Cristo esser catto. / Veggiolo un’altra volta esser deriso / veggio rinovellar l’aceto e ‘l fele / e tra vivi ladroni esser anciso» (Pur XX, 86-90).
Poche settimane dopo, Bonifacio VIII moriva di crepacuore e il papato restava sotto la tutela minacciosa del re di Francia. È in questo travagliato inizio di secolo che si radica quella tragica situazione che – quando Caterina Benincasa viene al mondo, nel 1347 – dura ormai da quarant’anni: la «grande assenza» del Papa da Roma. Sarebbe durata ancora trent’anni: in tutto settant’anni di esilio che a molti cristiani ricordarono troppo da vicino la «cattività di Babilonia».
Oggi qualche storico dice che quei settant’anni salvarono il papato dalla frantumazione anarchica in cui l’Italia si andava disfacendo e che, ad Avignone, la curia pontificia imparò un modo moderno di governare e di amministrare. Certo è che allora parve piuttosto una sventura e un tradimento. Dante diceva che la Chiesa «s’era maritata al regno di Francia» e Petrarca – con minor purezza di cuore, tuttavia – affermava che Avignone era «l’inferno dei vivi e la cloaca della terra».
Erano giudizi ingiusti, ma rendono bene lo stato d’animo di molti, soprattutto perché qualche papa del periodo avignonese (vi furono anche dei santi uomini) meritò davvero l’accusa di Dante: d’essere «un pastor senza legge». Verso la metà del secolo comunque la cristianità viveva un diffuso senso di angoscia. L’Italia è in preda alle guerre civili che mettono una città contro l’altra e, nella stessa città, un partito in lotta fratricida contro un altro partito. La Germania è in preda al caos; Inghilterra e Francia hanno cominciato la tragica e interminabile guerra dei cent’anni; l’impero d’Oriente è in disfacimento e i Turchi premono minacciosamente ai confini dell’Europa. Dovunque scoppiano guerre di contadini che si sentono oppressi ed emarginati. La carestia e le catastrofi naturali sono ricorrenti.
E, al culmine di tutto, proprio nel 1347, scoppia quella terribile «peste nera» (di cui parla il Boccaccio) che in pochi mesi porta alla tomba più di un terzo della popolazione d’Europa. Si calcola che vennero quasi annientate due intere generazioni, come se il mondo avesse subito un salto cronologico. Ad Anagni morirono metà degli abitanti. A Siena qualcuno scrive addirittura che la popolazione scese da ottantamila a quindicimila abitanti. Proprio in questo terribile 1347, dunque, nasce a Siena, da parto gemellare, Caterina: ventiquattresima figlia di Jacopo Benincasa, tintore, e di monna Lapa, figlia di un coltraio. La gemellina muore quasi subito, ma l’anno successivo nascerà una venticinquesima sorella. In più, la famiglia accoglie un cuginetto orfano, di dieci anni: diventerà frate domenicano e sarà il primo confessore di Caterina. Attorno alla piccola fiorisce prestissimo quando lei è ancora in vita – la Legenda che riempie di miracoli la sua infanzia e la sua giovinezza.
Di alcuni episodi parla Caterina stessa, di altri parlano il suo confessore e gli innumerevoli ammiratori che la attorniano continuamente, affascinati dalla sua già matura santità. Forse qualche racconto è abbellito, ma la creazione di alcuni particolari serve soltanto a trasmettere l’inesprimibile fascino soprannaturale che da lei promana. Tutti sanno comunque, con certezza, che l’infanzia di Caterina è stata irrimediabilmente segnata da una visione di Cristo sorridente, dal cui cuore esce un raggio luminoso che la raggiunge e la ferisce.
Così la bambina cresce diversa dagli altri numerosi fratelli e sorelle (dei più non sappiamo neppure il nome!): cresce «consacrata» da un voto di verginità (cioè di amore esclusivo a Cristo) che lei stessa ha fatto spontaneamente, già a sette anni, promessa per lei irrevocabile. La vedono cercare il silenzio, la preghiera, l’austerità, e non ha ancora dieci anni. Se ci sembrano pochi, dobbiamo prima pensare che tutta la sua vicenda terrena – così ricca di avvenimenti e di incontri durerà appena trentatré anni, e in così poco tempo ella dovrà consumarsi per Cristo e per la Chiesa. A 15 anni – per togliere ogni illusione alla madre che vorrebbe fidanzarla ad ogni costo – Caterina compie un gesto decisivo: esce dalla sua stanza dopo essersi tagliati i lunghi capelli, al modo di santa Chiara d’Assisi: adesso ella è – secondo l’espressione del tempo – una «fanciulla tonduta», una fanciulla sottratta alle vanità del mondo, «consacrata».
La madre, per punizione e per stornarla da un progetto che le sembra assurdo (Caterina è l’unica figlia che lei abbia allattato…), licenzia la domestica e fa pesare su di lei gran parte dei lavori domestici: pensa che, con quel peso superiore alle sue forze, alla ragazza non resterà tempo per indulgere a fantasie e pratiche monacali. Dicono che un giorno, per la stanchezza o forse per il raccoglimento, la bambina si piega troppo sulle fiamme del focolare, e il fuoco lambisce a lungo, pericolosamente, il suo volto, ma senza bruciarlo. Forse è una leggenda, ma il focolare è l’unica parte conservata intatta della sua casa. Nelle vicende dei secoli, nessuno ha osato toccarlo.
A Caterina è stata tolta perfino la sua stanzetta per impedirle di ritrovarsi in preghiera ed è da allora che ella ha imparato per sempre a rifugiarsi in se stessa: «Fabbricò, dicono le cronache, nell’anima sua una cella interiore dalla quale imparò a non uscire mai». Con la mamma, Caterina è dolce e obbediente, ma inflessibile.
Più tardi – quando dovrà continuamente viaggiare per obbedire alla sua «missione» e la mamma si lamenterà delle sue lunghe assenze Caterina, che è ormai divenuta la guida spirituale anche della sua stessa madre, le scriverà, non senza «ricordare»: «Tutto questo vi addiviene perché voi amate più quella parte che io ho tratta da voi che quella ch’io ho tratta da Dio, cioè la carne vostra della quale mi vestiste» (Lettera 240). Nella storia del problema educativo, poche volte è stato descritto altrettanto bene, in forma così cristianamente essenziale, il torto che i genitori possono fare ai loro figli: amare in loro quella carne che essi gli han dato più di quell’anima che Dio ha messo in loro, quella irripetibile impronta e destino con cui Egli li ha fatti e segnati per Sé.
Tutta la lettera è costruita su questo invito di Caterina: «Con desiderio ho desiderato di vedervi madre vera non solamente del corpo, ma dell’anima mia». Dopo mesi di sofferenze e di attesa, quando non può più resistere, Caterina rivela ai genitori il voto fatto da bambina e spiega con irremovibile determinazione: «Ora che con la grazia di Dio sono giunta a un’età discreta e ho maggiore conoscenza, sappiate che certe cose sono in me così ferme che sarebbe più facile intenerire un sasso che levarmele dal cuore. Io devo obbedire più a Dio che agli uomini» (Legenda 1, c. 5). Fu il papà che prese finalmente le sue difese. Rivolto alla moglie e agli altri figli, il buon Jacopo decise: «Nessuno dia più noia alla mia dolcissima figliola… Lasciate che serva come le piace il suo Sposo. Mai potremo acquistare una parentela simile a questa, né dobbiamo lamentarci se invece di un comune mortale riceviamo un Dio e un Uomo immortale».
Finalmente, a 16 anni, Caterina può entrare fra le terziarie domenicane di Siena: porterà la veste bianca e il mantello nero dell’Ordine di San Domenico (le chiamano perciò «mantellate» ), ma non sceglie la clausura, il monastero, perché intuisce di avere una missione pubblica da svolgere. Comincia a distribuire il suo tempo e le sue forze tra le occupazioni familiari, le lunghe preghiere e l’assistenza agli ospedali (Siena ne conta allora 16!) e al lebbrosario. Data la sua giovane età, non le sono risparmiate le incomprensioni, le cattiverie e persino le più atroci calunnie: affronta tutto con un irresistibile impeto di carità. Sono anni nascosti, durante i quali grande spazio è dato alla preghiera profonda e ai digiuni, a penitenze che oggi ci appaiono quasi incredibili.
Inoltre c’è sempre attorno a lei quell’atmosfera di familiarità al miracolo e al prodigioso, che ormai l’accompagna. L’aspetto più evidente della sua intima maturazione è il fatto che attorno a lei, ragazza illetterata, si costituisce una compagnia di seguaci e di ammiratori. È chiamata – in un senso tutto spirituale – la «bella brigata», composta da gente di ogni età e condizione: magistrati e ambasciatori, pittori e poeti, nobili e borghesi, cavalieri e artigiani, nobildonne e popolane. Nell’elenco ci sono anche religiosi d’ogni specie: domenicani, francescani, agostiniani, vallombrosani, guglielmiti e altri. Tra tutti si discute di teologia e di mistica, si legge la Divina Commedia e si studia san Tommaso d’Aquino, e, soprattutto, si impara ad amare con tutto il cuore Cristo Redentore e la Chiesa suo mistico corpo.
E un vero e proprio «movimento cateriniano» che si allarga sempre più (durante la vita della santa toccherà il centinaio di persone): tutti chiamano Caterina «mamma» e lei li chiama «dolcissimi figlioli». Non solo li segue e li consiglia spiritualmente uno per uno, ma si sente responsabile della loro vita, della loro fede, della loro vocazione. «Da quando la conobbi – scrisse uno di loro – di null’altro mi importa nella vita, se non di piacere a Dio». L’intensità dei rapporti tra Caterina e i suoi oggi possiamo coglierla leggendo le lettere che la Santa inviò loro: tra tutte sono quelle scritte col «tu» e grondano affezione e preoccupazione materne. Per la giovanissima senese i discepoli sono un dono che Dio le ha fatto: «quelli che Tu mi hai dato perché io li ami di singolare amore».
Ella se ne prenderà cura fin sul letto di morte: li vorrà attorno a sé e a molti di loro darà l’ultima «ubbidienza», indicando dettagliatamente la strada vocazionale che ognuno dovrà percorrere. Morirà, preoccupata come Cristo, perché essi non restino «come pecore senza pastore» (Lettera 373). Una delle sue ultime preghiere sarà per loro: «Dio eterno, o Maestro buono, amore mio dolce…, ancora ti raccomando i dilettissimi figlioli miei; pregoti… che tu non li lasci orfani, ma visitali con la grazia tua e fagli vivere morti (cioè: «obedientissimi») con vero e perfettissimo lume, legali insieme nel Vangelo dolce della carità acciò che muoiano spasimati in questa dolce Sposa». «Morire spasimati» d’amore per la Chiesa è il sogno educativo di Caterina ed è il fulcro della sua pedagogia.
Come avvenisse a quei tempi l’incontro determinante tra questa donna (dotata di un vero e proprio carisma di maternità) e i suoi «figli» lo si può comprendere raccontando almeno uno degli episodi più celebri e sconvolgenti. Fra Gabriele da Volterra era Padre Provinciale dei francescani e Inquisitore capo di Siena, ed era considerato uno dei più celebri teologi e predicatori del suo tempo, in Italia. Assieme ad un altro teologo di fama, l’agostiniano Giovanni Tantucci, egli decise di mettere alla prova la pretesa sapienza di Caterina: l’interrogarono su difficili argomenti di teologia e di Sacra Scrittura. Dapprima la giovane rispose con tranquillità, poi li affrontò con una dolcezza tagliente come una spada: ricordò ai reverendi Padri che la scienza può gonfiare di orgoglio chi la possiede, mentre l’unica cosa che valga la pena di conoscere è la scienza della Croce di Cristo. Fra Gabriele è un frate colto e raffinato: raccontano di lui che «vive con tanto fasto come se fosse un Cardinale» e che ha fatto demolire le pareti di tre celle per farsene la sua: il letto è coperto da un piumino ed è riparato da cortine di seta, alle pareti una piccola ma preziosa biblioteca del costo di centinaia di ducati, e, ben disposti qua e là, molti oggetti di valore. Caterina continua a parlare: spiega quanto sia inutile e dannosa la vita di chi «cura la scorza e non il midollo». Ed ecco che il frate francescano trae di tasca la chiave del suo appartamento e chiede ai seguaci della mantellata senese: «C’è qualcuno che voglia andare nella mia cella, a vender tutto e a distribuire il ricavato ai poveri?». Lo prendono in parola e gli lasciano nella stanza solo il breviario. Abbandonerà anche tutte le sue cariche e si farà frate inserviente a Santa Croce di Firenze. Sono questi i miracoli più certi e più evidenti di ogni altro gesto straordinario che si possa raccontare.
Caterina ha ormai circa vent’anni e sta per giungere il tempo della sua missione pubblica nella Chiesa. Ella sente che qualcosa di decisivo deve accadere e continua a pregare intensamente con quella splendida e dolcissima formula che le è divenuta abituale: chiede al suo Signore Gesù: «Sposami nella fede!». Era la sera di carnevale del 1367: «In quei giorni – scrive il suo primo biografo – in cui gli uomini hanno l’abitudine di celebrare la miserevole festa del ventre», mentre gli schiamazzi riempiono la città e la sua stessa casa, la giovane è lì nella sua stanzetta che ripete assorta la sua preghiera sponsale «per la millesima volta». Ed ecco apparirle il Signore che le dice: «Ora che gli altri si divertono… io stabilisco di celebrare con te la festa dell’anima tua».
Improvvisamente la Corte del cielo, con i Santi che Caterina più ama, è lì presente, come al cadere di un velo: Maria, la Vergine Madre, prende la mano della fanciulla e la unisce a quella del suo divin Figlio. Gesù le mette al dito un anello luminoso (che Caterina vedrà, lei sola, per tutta la vita) e le dice: «Ecco, io ti sposo a Me nella fede, a Me tuo Creatore e Salvatore. Conserverai illibata questa fede fino a che non verrai nel cielo a celebrare con Me le nozze eterne». La promessa del Cantico dei Cantici e quella delle parabole nuziali, raccontate nel Vangelo, sono diventate la mistica realtà di Caterina Benincasa. Fino ad alcuni anni fa (forse ancor oggi) c’era a Siena l’usanza che nell’ultimo giorno di carnevale a nessun corteo o maschera fosse concesso passare per la contrada di Fontebranda, là dove quelle mistiche nozze furono celebrate. Sul frontone dell’edificio c’è ancora scritto: «È questa la casa di Caterina, la Sposa di Cristo».
Altri episodi di sapore biblico le accaddero, perché ancor più fosse precisato il senso della sua missione. Un giorno Caterina vide il suo divino Sposo che l’abbracciava a Sé, ma poi le toglieva il cuore dal petto per darle un altro cuore più simile al Suo: era l’applicazione letterale della profezia contenuta nelle Scritture: «Io vi darò un cuore nuovo». Un altro giorno ancora si sparse la voce che Caterina era morta e la folla degli amici e dei discepoli si accalcò attorno al suo letto funebre. Lei stessa disse poi d’aver avuto il cuore lacerato per la violenza dell’amore divino e d’aver attraversato la morte fino a «intravvedere le porte del paradiso».
Ma s’era poi dovuta risvegliare sulla terra con questo lamento sulle labbra: «Ah, come sono infelice!… Ritorna, figlia – mi ha detto il Signore – , la salute di molte anime richiede che tu ritorni: né da qui in avanti avrai la cella per abitazione, anzi ti converrà uscire dalla tua stessa città.. Io ti condurrò innanzi ai principi e ai rettori della Chiesa e del popolo cristiano…». Seppe così che Dio l’aveva investita della missione di sostenere e quasi incarnare quella Chiesa del suo tempo così bisognosa di amore forte, di decisione, e di «riforma».
L’umile ragazza illetterata cominciò a riempire il mondo dei suoi messaggi, di lettere lunghissime dettate con una impressionante velocità, spesso tre o quattro contemporaneamente e su argomenti diversi, senza confondersi e senza che i segretari riescano a mantenere il suo ritmo: lettere che portano tutte la celebre chiusa appassionata: «Gesù dolce, Gesù Amore», e che spesso iniziano con quelle formule che ricordano gli scrittori Sacri: «Io Caterina serva e schiava dei servi di Gesù, scrivo a voi nel prezioso Sangue Suo…». In certi antichi codici miniati, si vedono i destinatari che ricevono la lettera in ginocchio e a mani giunte. Francesco De Sanctis definì le 381 lettere che ci sono rimaste: «il codice d’amore della cristianità».
Ciò che più impressiona in esse è la forza e la frequenza di un verbo: «io voglio». Già nella prima lettera, scritta al Legato pontificio in Italia, si esprime con tale determinazione: «Or così voglio, Padre mio, Legato del nostro Signor Papa, che siate sollecito e non negligente in quello che avete a fare…» (Lettera 1). Qualcuno dice che questo risoluto «io voglio» lei lo usi, durante le estasi, perfino con Cristo. Quando comincia la sua più impegnativa corrispondenza, quella col papa Gregorio XI per convincerlo a tornare a Roma, usa formule piene di tenerezza e tuttavia non è meno decisa: «Voglio che siate quello e buono pastore, che se aveste cento migliaia di vite, vi disponiate tutte a darle per onore di Dio e per salute delle creature… Virilmente, e come uomo virile seguitando Cristo, di cui vicario siete… Su dunque, Padre, e non più negligenzia!» (Lettera 185). «Dicovi da parte di Cristo… che nel giardino della Santa Chiesa voi ne traggiate li fiori puzzolenti, pieni di immondizia e di cupidità, enfiati di superbia, cioè li mali pastori e rettori che attossicano e imputridiscono questo giardino… Io vi dico, Padre in Gesù Cristo, che voi venite tosto, come agnello mansueto. Rispondete allo Spirito Santo che vi chiama. Io vi dico… venite, venite e non aspettate il tempo, ché il tempo non aspetta voi» (Lettera 206).
Quasi impersonando la Chiesa Sposa e Madre, ella continua a chiedere al Pontefice di esserle «uomo virile, senza veruno timore». Quando esagera nelle espressioni, si scusa ma non indietreggia: «Ohimè, ohimè, babbo mio dolcissimo, perdonate alla mia presunzione, di quello ch’io vi ho detto e dico: son costretta dalla dolce prima verità di dirlo… Io, se fussi in voi, temerei che il Divino giudicio non venisse sopra di me…» (Lettera 255). Con lo stesso tono e stile scrive anche a prìncipi e regnanti. A Bernabò Visconti, signore di Milano, che prepara la ribellione al Papa, scrive con foga una lunga lettera per insegnargli a mantenere innanzitutto «la signoria della città nell’anima vostra»: gli parla dell’amore di Dio, del sangue di Gesù e del Papa che lo amministra («Eziandio se fusse dimonio incarnato io non debbo alzare il capo contro a lui…»). Gli minaccia la morte eterna e conclude: «Amate e temete Cristo Crocifisso: nascondetevi nelle piaghe di Cristo Crocifisso: disponetevi a morire per Cristo Crocifisso» (Lettera 28).
Alla regina di Napoli che parteggia per l’antipapa scriverà: «Ohimè pianger si può sopra di voi come morta, morta nell’anima e morta al corpo, se non uscite da tanto errore» (Lettera 317). E al re di Francia: «Fate la volontà di Dio e la mia». La missione di Caterina diventa quella di pacificare le città e la Chiesa: condizione ineliminabile è il ritorno del Pontefice a Roma; ma ella sa di dover incarnare personalmente il travaglio necessario. Pregando per il Papa che tarda a decidersi, ella dice al Padre celeste: «Concedi, o Dio eterno…, che il Vicario tuo non attenda ai consigli della carne e… che non spaurisca per niuna avversità. Se la tardanza sua, o Amore eterno, ti dispiace, punisci per quella il corpo mio che io te l’offro e rendo» (Oratio III). Ella sa che, in un modo misterioso, le sofferenze e i destini della Chiesa la riguardano: durante una visione ha visto Cristo che «mi dava la croce in collo e lo ulivo in mano e così diceva che io lo portassi all’uno e all’altro…».
Finalmente ella poté recarsi di persona ad Avignone e vi incontrò subito lo scherno dei Cardinali: «Essendo tu povera donnicciola (cum sis vilis femella…), come ti arroghi di parlare di un simile argomento col nostro Signor Papa?». Ma non sapevano di aver a che fare con una che li poteva contemporaneamente amare e onorare con tutto il cuore per la dignità e il sacerdozio di cui erano rivestiti, ma non temeva anche di definirli «servi del Dimonio» quando ostacolavano la volontà di Dio e la sua missione.
E il Papa ascoltava Caterina; per fermarlo gli fecero giungere una falsa lettera – a nome di un santo personaggio allora assai celebre: quel beato Pietro d’Aragona che aveva rinunciato al regno per farsi frate francescano – in cui si avvertiva il Pontefice di non tornare in Italia se non voleva venire avvelenato: sulle mense che il Papa avrebbe incontrato nel suo viaggio il veleno era già stato predisposto! La risposta di Caterina fu tagliente e l’ardore vi si mescolò con l’ ironia: «A me non pare che sapesse bene l’arte colui che la fece… Parmi che egli abbia saputo meno di un bambolo. Anche un bambino infatti sa che del veleno se ne trova così alle tavole d’Avignone e dell’altre città, come a quelle di Roma… e largamente, secondo che gli piacesse al compratore». E terminava: «Concludo che la lettera mandata a voi non esca da quello servo di Dio, ma credo che ella venga ben da presso e dai servi del Dimonio, che poco temono Dio».
In questa occasione ella giunse fino a dire al Papa, pur con tanto rispetto e tenerezza, che non facesse il bambino: «E io vi prego da parte di Cristo Crocifisso che voi non siate fanciullo timoroso, ma virile» (Lettera 239). Il parere contrario della quasi totalità dei Cardinali (21 su 26 erano francesi!), che s’affannavano a sconsigliare il ritorno in Italia, Caterina lo liquidava con un solo giudizio: «Parmi che il consiglio dei buoni attenda solo all’onore di Dio, alla salute delle anime e alla reformazione della Santa Chiesa e non ad amore proprio di loro… perocché il consiglio loro va colà dov’hanno l’amore» (Lettera 231).
Finalmente, nel settembre 1376, Gregorio XI, l’ultimo papa di nazionalità francese, decise il grande passo e si mise in viaggio verso Roma. Ma contrariamente a quanto hanno significativamente immaginato pittori e scultori (che mostrano Caterina che precede il corteo papale reggendo la briglia del palafreno), la Santa non lo accompagnò a Roma; si ritirò invece in un suo romitorio di Siena.
Da lì continua ad accorrere dovunque c’è bisogno di pace e di grazia di Dio. Celebri sono le sue visite importune ma efficaci a pubblici peccatori induriti o a violenti irriducibili o a condannati a morte, disperati. Non c’è chi non conosca l’episodio, riportato in tutte le antologie, di Nicolò di Toldo, il condannato a morte che Caterina aiutò a morire come si aiuta un figlio a nascere. Nicolò era un gentiluomo perugino, condannato alla pena capitale «per alcuna parola che incautamente avea detta che toccava lo Stato». Non per nulla aveva parlato contro coloro che si facevano chiamare «Magnifici Signori e Padri, Difensori del Popolo della città di Siena». Era stato anche troppo facile accusare quello «straniero» di spionaggio. Dice un testimone del tempo: «Per la prigione egli andava come uomo disperato, non volendosi confessare, né udire né frate né prete che li dicesse cosa che appartenesse alla sua salute. Alfine fu mandato per questa vergine, la quale con grandissima carità l’andò a trovare in prigione». Ciò che accadde è la stessa Caterina a raccontarlo in una pagina che – secondo il Tommaseo – «congiunge la terribilità di Michelangelo con la soavità dell’Angelico»: «Andai a visitare colui che sapete: ond’egli ricevette tanto conforto e consolatione che si confessò…, menailo udire la Messa; e ricevette la 19 Nicolò di Toldo Santa Comunione, la quale mai più aveva ricevuto… e dissi: ‘Confortati, fratello mio dolce, perocché tosto giungeremo alle nozze. Tu v’andrai bagnato dal sangue dolce del Figliolo di Dio, col dolce nome di Gesù, il quale non voglio che t’esca mai dalla memoria. E io t’aspetto al luogo della giustizia…’». Infatti lo attese al patibolo, all’alba di quel terribile giorno. «Aspettailo, dunque, al luogo della giustizia, e aspettai ivi con continua orazione… Poi egli giunse come un agnello mansueto: e vedendomi cominciò a ridere e volle che io gli facessi il segno della Croce. Ricevuto il segno, dissi io: ‘Giuso! Alle nozze, fratello mio dolce! ché tosto sarai alla vita durabile’. Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo e mi chinai giù e gli rammentai il Sangue dell’Agnello. La bocca sua non diceva se non `Gesù e Caterina’. E così dicendo, ricevetti il capo nelle mie mani, fermando l’occhio nella divina bontà, e dicendo: `Io voglio’! Allora si vedeva Dio e Uomo, come si vedesse la chiarità del sole. Ma egli faceva un atto dolce, da trarre mille cuori. E non me ne meraviglio, perché già gustava la divina dolcezza. Volsesi come fa la sposa quand’è giunta all’uscio dello sposo suo che volge l’occhio e il capo addietro, inchinando chi l’ha accompagnata e, con l’atto, dimostra segni di ringraziamento… Riposto che fu, l’anima si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue che io non potevo sostenere di levarmi il sangue che m’era venuto addosso, di lui. Ohimè, misera miserabile, non voglio dir di più. Rimasi nella terra con grandissima invidia…» (Lettera 273).
Intanto nei pochi anni che scorrono tra il sospirato ritorno del Papa a Roma e il Grande Scisma, che nuovamente impegnerà Caterina nella lotta per la Chiesa, nasce in brevissimo tempo, ma preparata da tutta la vita, quell’opera che farà di lei un Dottore della Chiesa. La Santa lo chiamò semplicemente, ma in forma quasi assoluta: «Il Libro». Dice il suo biografo: «La Santa Serva di Dio fece una mirabile cosa, cioè un Libro il quale è di volume di un messale, e questo fece tutto essendo essa in astrazione, perduti tutti li sentimenti, salva la lingua. Dio Padre parlava ed ella rispondeva, ed ella medesima recitava la parola di Dio Padre detta a lei e anche le sue medesime che ella diceva e domandava a Lui… Ella diceva e uno scriveva: quando ser Balduccio, quando el detto donno Stefano, quando Neri di Landuccio. Questo a udire pare che sia cosa da non credere, ma a coloro che lo scrissero e udirono nollo pare così, e io so’ uno di quegli».
Sono 167 capitoli strutturati attorno a quattro domande che Caterina rivolge al Padre celeste, «con ansietato desiderio». La prima domanda è «misericordia per Caterina»: e Dio risponde aiutandola «col cognoscimento di te e di me», immergendola cioè nella luce abbagliante di chi finalmente comprende di essere «nulla» davanti al «tutto» che è Dio, eppure scopre con stupore infinito che di questo piccolo nulla Dio è da sempre innamorato. La seconda domanda è: «Misericordia per il mondo»; la terza è: «Misericordia per la Santa Chiesa». Caterina chiedeva che il Padre «tollesse le tenebre e la persecuzione» e di poter portar lei il peso di ogni iniquità. La quarta domanda è «provvidenza per tutti». Ad ogni domanda dunque Dio Padre risponde lungamente e tutta la dottrina cristiana vi si dipana nei suoi vari aspetti teologici, morali e ascetici. Ciò che il divin Padre soprattutto dice è che la misericordia è già stata donata quando «volendo rimediare a tanti mali v’ho dato il Ponte del mio Figliolo, acciò che passando il fiume non annegaste, il quale fiume è il mare tempestoso di questa tenebrosa vita». Con l’immagine del «Ponte», Caterina attualizza l’affermazione di Cristo che ha detto: «Io sono la via»; è Lui dunque che ci permette di «passare 1’amaritudine del mondo».
Ecco come un commentatore descrive la visione cateriniana di questo Cristo disteso tra cielo e terra: «Il ponte è Gesù stesso che resta immobile, disteso sul duro tronco della croce, con le tappe obbligate dei piedi squarciati dai chiodi, con il costato aperto dalla lancia e la bocca tremante nella esalazione dell’ultimo respiro». Si sale, dunque, dal mondo al Padre, «percorrendo» con adorazione il corpo di Cristo, con un triplice bacio: ai piedi, al «segreto del cuore», alla «bocca dell’amore crociato per noi». Così, verso la fine del Trecento, Caterina completava ciò che Dante aveva cominciato all’inizio del secolo: dimostrare che il volgare poteva essere anche il linguaggio della teologia e della mistica. Aveva appena finito di descrivere l’amore provvidenziale con cui il Padre guardava il mondo e la sua Chiesa, che la terra si frantumò nel Grande Scisma.
Due papi vennero eletti dagli stessi cardinali e la cristianità si spaccò in due, e per quarant’anni il dubbio sul legittimo pastore devasterà la Chiesa. Caterina chiamata a Roma da Urbano VI, il vero Papa, lo sostenne a spada tratta contro ogni dubbio e ogni tentennamento, giungendo fino a rivolgere una esortazione a un concistoro pubblico di cardinali. «Or ecco fratelli miei – concluse Urbano VI – quanto noi siamo degni di riprensione al cospetto di Dio: quanto noi siamo cotanto timidi, come vedete, questa femminetta confonde noi. Io non dico femminetta a lei per suo disprezzo, ma per ragione del sesso, il quale, naturalmente, è fragile. Costei dovrebbe dubitare quando noi fossimo ben sicuri, ed è sicura dubitando noi, e conforta noi con le sue sante persuasioni. Questa è sua gloria e nostra confusione».
Dicono i biografi che si potrebbe ricostruire quasi mese per mese l’attività che Caterina svolse a favore del Papa: lettere e messaggeri inviati a quasi tutti i regnanti d’Europa; consigli al Pontefice per un totale rinnovamento della curia, e soprattutto il tentativo di far stringere attorno al Papa quella che lei chiamava «la compagnia dei buoni» (Lettera 305). Infatti Urbano VI si decise (con una Bolla del 13 dicembre 1378) a chiedere l’aiuto spirituale dei fedeli e Caterina stessa la inviò, accompagnandola con un suo scritto, a tutte le personalità spirituali di sua conoscenza, chiedendo loro di schierarsi esplicitamente a favore di Urbano VI. E non fu affatto tenera con quei sant’uomini che si defilavano con la scusa di doversi dedicare alla contemplazione.
Contemporaneamente ella, con sano realismo, si rendeva conto che il carattere impetuoso e violento di papa Urbano non facilitava la riconciliazione. Di lui, scrisse Ludovico A. Muratori, che «sarebbe stato il personaggio del proprio tempo più meritevole di essere papa… se non fosse stato papa». Gli scriveva Caterina: «Perdonatemi, ché l’amore mi fa dire quello che forse non bisogna dire. Perocché so che dovete cognoscere sì la condizione dei figlioli vostri romani, che si traggono e si legano più con dolcezza che con altra forza o asprezza di parole…» (Lettera 370). E con delicatezza, il giorno di Natale, regalò al Pontefice cinque melarance piene di confettura, lavorate secondo un’antica ricetta senese: ne approfittò per spiegare al Papa come un frutto naturalmente aspro possa riempirsi di dolcezza in modo da corrispondere al suo rivestimento dorato: «La melarancia che in sé pare amara e forte, trattone quello che v’è dentro, e mettendola in mollo, l’acqua ne trae l’amaro; poi si riempie con cose confortative e di fuore si copre d’oro… Or così dolcemente, santissimo Padre, produceremo frutto senza la perversa amaritudine» (Lettera 346). Dicono gli storici che di fatto Caterina «obbligò il mondo a riconoscere papa Urbano VI».
Intanto, benché non avesse ancora trentatré anni, lei era distrutta dalla fatica e dalla passione. Sapeva di dover offrire soprattutto se stessa. Pregava: «O Dio eterno, ricevi il sacrifizio della mia vita in questo corpo mistico della Santa Chiesa. Io non ho che da dare altro se non quello che tu hai dato a me. Tolli il mio cuore dunque e premilo sopra la faccia di questa Sposa» (Lettera 371). 25
Durante la quaresima del 1380, benché quasi non potesse più camminare, fece il voto di recarsi ogni giorno a San Pietro. Scrive al suo confessore: «Quante necessità vediamo nella Santa Chiesa che in tutto la vediamo rimasta sola». Per questo ogni mattina va a fare compagnia allo Sposo, anch’Egli abbandonato, anche se è così sfinita che devono sostenerla lungo la strada. Dice: «Con questi e altri modi che non posso narrare si consuma e distilla la vita mia in questa dolce Sposa, io per questa via e i gloriosi martiri col sangue». Sa che sta sperimentando un vero martirio. E quell’ultimo faticosissimo pellegrinaggio quotidiano è ormai un simbolo: quando giunge nella Basilica che rappresenta il cuore della cristianità, ogni mattina si ferma davanti al mosaico disegnato da Giotto (che allora era al centro sul frontone del porticato), che raffigura la scena evangelica della navicella sbattuta dalle onde in tempesta, simbolo della Chiesa che sembra sì andare alla deriva, ma che nulla può sommergere. Era un’immagine che piaceva molto a Caterina: spesso aveva scritto nelle sue lettere: «pigliate la navicella della Santa Chiesa» (Lettera 357).
Così anche descrive sinteticamente, con una impressionante forza espressiva, quegli ultimi giorni della sua vita: «Quando egli è l’ora della terza, e io mi levo dalla messa, e voi vedreste andare una morta a San Pietro; ed entro di nuovo a lavorare nella navicella della Santa Chiesa. Io me ne sto così infino presso all’ora del vespero, e di quello luogo non vorrei uscire né dì né notte, infino che io non veggo un poco fermato e stabilito questo popolo col Padre loro. Questo corpo sta senza veruno cibo, eziandio senza una gocciola d’acqua, con tanti dolci tormenti corporali, quanto io portassi mai per veruno tempo: intanto che per uno pelo ci sta la vita mia. Ora non so quello che la divina Bontà si vorrà fare di me, ma quanto al sentimento corporale, mi pare che questo tempo io il debba confermare con un nuovo martirio nella dolcezza dell’anima mia, cioè nella Santa Chiesa: poi, forse che mi farà resuscitare con Lui; porrà fine e termine sì alle mie miserie e sì a’ crociati desiderii… Ho pregato e prego la sua misericordia che compia la sua volontà in me…» (Lettera 373).
Così Caterina passò la sua ultima quaresima: soffrendo assieme a quella Chiesa che chiama «dolcezza dell’anima mia» e aspettando, assieme a lei, il dono della resurrezione. Non riuscì a completare il suo voto; la terza domenica di quaresima si accasciò davanti al Mosaico, mentre s’era fermata lì in preghiera; le sembrò disse – che tutto il peso di quella navicella e dei peccati che portava fosse addossato sulle sue fragili spalle. La condussero nella sua celletta in via del Papa (anche i particolari hanno una loro tenerezza) e lì restò immobile per circa otto settimane in una lunghissima agonia. La domenica che precedeva l’Ascensione tutti ebbero l’impressione che subisse una lotta indicibile.
La udirono ripetere a lungo: «Dio abbi pietà di me, non mi togliere la memoria di te», poi ancora: «Signore vieni in mio aiuto, affrettati Signore ad aiutarmi!». E infine, come se discutesse con un accusatore: «Vanagloria? No, ma soltanto vera gloria in Cristo». Morì l’ultima domenica di aprile, a trentatré anni, alle tre del pomeriggio dopo aver invocato ad alta voce quel «sangue» di Cristo di cui aveva sempre desiderato d’essere totalmente bagnata e dicendo come il Crocifisso: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (Legenda Maior 365ss). Le dedicarono tre funerali: uno voluto dal Papa, uno voluto per Decreto civico dal Senato di Roma, e uno voluto dall’Ordine domenicano. Doveva predicare quel famoso teologo agostiniano che Caterina aveva convertito e chiamato a sé – padre Giovanni Tantucci – il quale l’aveva assistita in punto di morte. Ma non riuscì a dir nulla. Balbettò soltanto: «Non riesco a parlare. Ma non importa. Caterina parla da se stessa!».
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE – Aula Paolo VI – Mercoledì, 24 novembre 2010
Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei parlarvi di una donna che ha avuto un ruolo eminente nella storia della Chiesa. Si tratta di santa Caterina da Siena. Il secolo in cui visse – il quattordicesimo – fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento. Caterina è una di queste e ancor oggi ella ci parla e ci sospinge a camminare con coraggio verso la santità per essere in modo sempre più pieno discepoli del Signore.
Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto numerosa, morì a Roma, nel 1380. All’età di 16 anni, spinta da una visione di san Domenico, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo femminile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quando era ancora un’adolescente, si dedicò alla preghiera, alla penitenza, alle opere di carità, soprattutto a beneficio degli ammalati.
Quando la fama della sua santità si diffuse, fu protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso il Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo il Venerabile Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia.
Caterina soffrì tanto, come molti Santi. Qualcuno pensò addirittura che si dovesse diffidare di lei al punto che, nel 1374, sei anni prima della morte, il capitolo generale dei Domenicani la convocò a Firenze per interrogarla. Le misero accanto un frate dotto ed umile, Raimondo da Capua, futuro Maestro Generale dell’Ordine. Divenuto suo confessore e anche suo “figlio spirituale”, scrisse una prima biografia completa della Santa. Fu canonizzata nel 1461.
La dottrina di Caterina, che apprese a leggere con fatica e imparò a scrivere quando era già adulta, è contenuta ne Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, un capolavoro della letteratura spirituale, nel suo Epistolario e nella raccolta delle Preghiere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che il Servo di Dio Paolo VI, nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiungeva a quello di Compatrona della città di Roma, per volere del Beato Pio IX, e di Patrona d’Italia, secondo la decisione del Venerabile Pio XII.
In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole: “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 115, Siena 1998). Quell’anello rimase visibile solo a lei. In questo episodio straordinario cogliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei come lo sposo, con cui vi è un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è il bene amato sopra ogni altro bene.
Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne mistica: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Capua, che trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: “Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo” (ibid.). Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, “… non vivo io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Come la santa senese, ogni credente sente il bisogno di uniformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo per amare Dio e il prossimo come Cristo stesso ama. E noi tutti possiamo lasciarci trasformare il cuore ed imparare ad amare come Cristo, in una familiarità con Lui nutrita dalla preghiera, dalla meditazione sulla Parola di Dio e dai Sacramenti, soprattutto ricevendo frequentemente e con devozione la santa Comunione. Anche Caterina appartiene a quella schiera di santi eucaristici con cui ho voluto concludere la mia Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (cfr n. 94). Cari fratelli e sorelle, l’Eucaristia è uno straordinario dono di amore che Dio ci rinnova continuamente per nutrire il nostro cammino di fede, rinvigorire la nostra speranza, infiammare la nostra carità, per renderci sempre più simili a Lui.
Attorno ad una personalità così forte e autentica si andò costituendo una vera e propria famiglia spirituale. Si trattava di persone affascinate dall’autorevolezza morale di questa giovane donna di elevatissimo livello di vita, e talvolta impressionate anche dai fenomeni mistici cui assistevano, come le frequenti estasi. Molti si misero al suo servizio e soprattutto considerarono un privilegio essere guidati spiritualmente da Caterina. La chiamavano “mamma”, poiché come figli spirituali da lei attingevano il nutrimento dello spirito.
Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate. “Figlio vi dico e vi chiamo – scrive Caterina rivolgendosi ad uno dei suoi figli spirituali, il certosino Giovanni Sabatini -, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio” (Epistolario, Lettera n. 141: A don Giovanni de’ Sabbatini). Al frate domenicano Bartolomeo de Dominici era solita indirizzarsi con queste parole: “Dilettissimo e carissimo fratello e figliolo in Cristo dolce Gesù”.
Un altro tratto della spiritualità di Caterina è legato al dono delle lacrime. Esse esprimono una sensibilità squisita e profonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinnovando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenuto e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro e al dolore di Maria e di Marta, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera n. 21: Ad uno il cui nome si tace).
Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: “Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363).
Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un ponte lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima passa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amore, l’unione dolce e affettuosa con Dio.
Cari fratelli e sorelle, impariamo da santa Caterina ad amare con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Facciamo nostre perciò le parole di santa Caterina che leggiamo nel Dialogo della Divina Provvidenza, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-ponte: “Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! (…) O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia” (cap. 30, pp. 79-80). Grazie.